“Ogni capa è ‘nu tribunale”

I tempi e i modi delle decisioni sono nodi critici e tipici dell’attività manageriale. 

In un paper della Harvard Business School, del 2020, vengono passate in rassegna le vie seguite da 262 manager (accomunati dall’essere tutti ex alunni della prestigiosa università). Ovviamente c’è grande diversità: chi adotta percorsi molto formalizzati e chi si basa sull’istinto; chi ama prima raccogliere le opinioni di collaboratori e altri manager, chi si convince della propria idea e si limita ad un confronto meno sostanziale. 

In ogni caso, i dati della ricerca mostrano che i manager che prediligono processi più strutturati sono tendenzialmente alla guida di imprese più grandi e in crescita, anche se non si può definire in modo univoco quale sia il rapporto di causa-effetto. Insomma, è l’azienda grande a fare il manager formale o è il manager formale a fare l’azienda grande? 

Altra caratteristica di questi manager è che prendono decisioni in media più lentamente degli altri. Ovvio si dirà. Processi formali, ascolto, ricomposizione di punti di vista dialettici, sono tutti aspetti che allungano i tempi, rendono meno rapida la definizione di una strategia, di una visione. 

E allora qual è l’equilibrio tra stringenza del time-to-market e giusto spazio e tempo del processo decisionale? Il manager cooperativo ha più la responsabilità del processo e dell’ampio consenso (che riduca la conflittualità interna) o più della sintesi e della velocità di esecuzione (che porti risultati sul mercato)?

In una folgorante battuta durante la discussione avuta il 17 novembre, Giovampaolo Gaudino ha ricordato che a Napoli si usa il detto “ogni capa ‘nu tribunale” (ogni testa un tribunale, o una sentenza) per dire che sì, la ricomposizione del consenso e i tempi della discussione possono essere una vera sfida per i manager cooperativi. Per esprimere lo stesso concetto - con ben minore efficacia della lingua partenopea - gli economisti, da sempre, parlano dei “costi di transazione” come uno dei freni allo sviluppo delle cooperative.

Al contempo alcuni manager a la Musk ci mostrano quanto la frenesia del manager muscolare e in solitaria non porti nulla di buono per l’azienda. Allora?

Allora occorre lavorare sulla cultura organizzativa, perché ciascuno assuma fino in fondo il ruolo assegnato, sui meccanismi di delega, perché siano efficaci ed efficienti, su quelli di controllo, perché siano sostanziali e si concentrino sui livelli di decisione più rilevanti. 

Per stare in equilibrio tra etica e business. Per far funzionare ogni organizzazione cooperativa e, invero, qualunque azienda.


Torneremo a parlarne domani, 23 novembre, a Parma, in una nuova presentazione di Manager cooperativi.


Impopolare elogio del manager "antipatico"

Da uno scambio su Linkedin, breve riflessione sul nuovo mainstream dei manager "buoni" e il rischio di qualche retorica di troppo.


Impopolare elogio del “manager antipatico”.

Non voglio polemizzare con Riccarda Zezza (che ammiro per il suo continuo provocare le certezze del nostro mondo del lavoro) o con Walter Veltroni (che da giovane dirigente comunale ho apprezzato come Sindaco di Roma proprio per le sue, per me allora insospettabili, qualità manageriali).

Ma vorrei scalfire una certa retorica che trovo in questa narrazione. L’immagine del manager “buono” rischia di sconfinare nell’elegia astratta dalla quotidianità della vita aziendale, macchiandosi anche di un certo paternalismo. Parlo di paternalismo perché il “modello Ferrero” deriva - come è normale e giusto che sia - da radicati rapporti di forza, tipici delle aziende a trazione padronale, dalle catene gerarchiche ferree.

In tali contesti, la morbidezza del manager è un plus, facilitato dalla assoluta inattaccabilità (dal basso) del suo ruolo e delle sue decisioni.

Differente è il caso in cui i rapporti di forza siano meno consolidati, come accade sovente nelle aziende a catena gerarchica fluida o a proprietà diffusa (si pensi ad aziende pubbliche, imprese cooperative o anche grandi multinazionali con centri di potere distribuiti), dove non può essere così automatico associare la “bontà” del manager, per come è qui descritta, alla sua efficacia.

Per almeno due motivi. Il primo è che chi (dal basso) giudica questa bontà è parte in causa della relazione e non sempre è esente da interessi particolari che ne muovono azioni e valutazioni (Cesare Caterisano usa l’espressione “vacche sacre” per indicare quella categoria di intoccabili che tende a riprodursi in ogni organizzazione umana).

Il secondo motivo è che quando i rapporti di forza sono meno definiti e lineari, fatalmente il punto di equilibrio tra manager “buoni” e collaboratori, rischia di essere non ottimale per chi, in ultimo, dell’azione manageriale dovrebbe beneficiare: clienti, utenti, soci (in una cooperativa o anche in una spa ad azionariato diffuso), cittadini (in un’azienda pubblica). Sappiamo bene quanto di frequente la “non gestione” di casi critici (verso il personale, i fornitori, gruppi di stakeholder) si traduca in maggiori costi (espliciti od occulti) per l’utenza o i cittadini.

Insomma, c’è sempre un rilevante tema di contrappesi tra sistemi di incentivo dei vari attori in gioco e criteri di valutazione dei risultati.

Nessuno vuole il manager despota, che è dimostrato non portare risultati. Ma quando un manager si assume con senso di responsabilità decisioni scomode, o spiacevoli per alcuni, è fatale che risulti “antipatico”, generi sacche di insoddisfazione soggettiva, che non possono dunque essere unico metro di valutazione della sua efficacia e capacità.

Diceva Ennio Flaiano, ripreso da molti, non ultimo Eduardo De Filippo (che fu anche grande manager teatrale), che "chi ha carattere, ha un brutto carattere".

Ecco, diffiderei di chi vuole manager senza carattere...