Impopolare elogio del “manager antipatico”.
Non voglio polemizzare con Riccarda Zezza (che ammiro per il suo continuo provocare le certezze del nostro mondo del lavoro) o con Walter Veltroni (che da giovane dirigente comunale ho apprezzato come Sindaco di Roma proprio per le sue, per me allora insospettabili, qualità manageriali).
Ma vorrei scalfire una certa retorica che trovo in questa narrazione. L’immagine del manager “buono” rischia di sconfinare nell’elegia astratta dalla quotidianità della vita aziendale, macchiandosi anche di un certo paternalismo. Parlo di paternalismo perché il “modello Ferrero” deriva - come è normale e giusto che sia - da radicati rapporti di forza, tipici delle aziende a trazione padronale, dalle catene gerarchiche ferree.
In tali contesti, la morbidezza del manager è un plus, facilitato dalla assoluta inattaccabilità (dal basso) del suo ruolo e delle sue decisioni.
Differente è il caso in cui i rapporti di forza siano meno consolidati, come accade sovente nelle aziende a catena gerarchica fluida o a proprietà diffusa (si pensi ad aziende pubbliche, imprese cooperative o anche grandi multinazionali con centri di potere distribuiti), dove non può essere così automatico associare la “bontà” del manager, per come è qui descritta, alla sua efficacia.
Per almeno due motivi. Il primo è che chi (dal basso) giudica questa bontà è parte in causa della relazione e non sempre è esente da interessi particolari che ne muovono azioni e valutazioni (Cesare Caterisano usa l’espressione “vacche sacre” per indicare quella categoria di intoccabili che tende a riprodursi in ogni organizzazione umana).
Il secondo motivo è che quando i rapporti di forza sono meno definiti e lineari, fatalmente il punto di equilibrio tra manager “buoni” e collaboratori, rischia di essere non ottimale per chi, in ultimo, dell’azione manageriale dovrebbe beneficiare: clienti, utenti, soci (in una cooperativa o anche in una spa ad azionariato diffuso), cittadini (in un’azienda pubblica). Sappiamo bene quanto di frequente la “non gestione” di casi critici (verso il personale, i fornitori, gruppi di stakeholder) si traduca in maggiori costi (espliciti od occulti) per l’utenza o i cittadini.
Insomma, c’è sempre un rilevante tema di contrappesi tra sistemi di incentivo dei vari attori in gioco e criteri di valutazione dei risultati.
Nessuno vuole il manager despota, che è dimostrato non portare risultati. Ma quando un manager si assume con senso di responsabilità decisioni scomode, o spiacevoli per alcuni, è fatale che risulti “antipatico”, generi sacche di insoddisfazione soggettiva, che non possono dunque essere unico metro di valutazione della sua efficacia e capacità.
Diceva Ennio Flaiano, ripreso da molti, non ultimo Eduardo De Filippo (che fu anche grande manager teatrale), che "chi ha carattere, ha un brutto carattere".
Ecco, diffiderei di chi vuole manager senza carattere...